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Probabilmente Patrick Bateman è morto l’11 Settembre gettandosi plastico dal centoseiesimo piano della Torre Nord. Oppure si è suicidato qualche mese fa, nel momento più cupo della crisi finanziaria, impiccandosi nel suo appartamento nell’Upper East Side con una camicia Brooks Brothers. Potrebbe essere finito in galera al termine del processo per il crack Enron. O piuttosto potrebbe essere stato ritratto sulle prime pagine di tutti i giornali lo scorso ottobre con uno scatolone in mano, gli occhi lucidi all’uscita della sede newyorkese di Lehmann Brothers. Patrick Bateman è il protagonista di American Psycho, il libro-capolavoro di Bret Easton Ellis (in Italia edito da Einaudi). Uscito negli Stati Uniti nel 1991, dopo il periodo della presidenza Reagan, pubblicato da Vintage, dopo che un’ altra casa editrice si era rifiutata di pubblicarlo per presunte oscenità contenute al suo interno, il libro ha avuto un buon successo in tutto il mondo, grazie anche al dignitoso adattamento cinematografico del 2000 con protagonista Christian Bale. Un viaggio nell’orrore. Un biglietto di sola andata. Non c’è ritorno. Né speranza. Una rappresentazione cruda e spietata. L’archetipo di quello che poi è il presente. Un’ opera che oggi è necessario rileggere, alla luce degli sconvolgimenti provocati dal crack finanziario di qualche mese fa. Una riflessione satirica sul capitalismo e il consumismo (e l’edonismo reaganiano), il racconto di una terrificante discesa agli inferi dei giorni nostri, o meglio di quel periodo incredibile che è la fine degli anni 80: New York City, Manatthan, Wall Street. La vita di un broker rampante, il ventiseienne Patrick Bateman, vera e propria incarnazione dello yuppie americano. Sessanta capitoli, sessanta canti, sessanta scalini discendenti che attraverso gironi ci descrivono l’esistenza quotidiana di Bateman, come tappe di un viaggio nella psiche (dis)umana. Lo osserviamo, attraverso uno stream of conciousness in prima persona (stilisticamente straordinario), in ogni fase della sua giornata, al risveglio, in ufficio, al ristorante , in discoteca, dall’estetista, in palestra. Nei rapporti con i colleghi di lavoro, con le ragazze. Una discesa graduale in una follia lucida e alternativamente schizofrenica in cui osserviamo il protagonista diventare (o forse già lo era) uno psicopatico omicida. Ma non solo. Ancor più tremendo è il viaggio attraverso una società descritta da Ellis come spersonalizzata , superficiale, amoralmente edonistica. Attraverso una prosa serrata e straordinariamente viva, Ellis/Bateman descrive la New York degli anni 80 (che poi è la madre di tutta società occidentale attuale) disgregata e tremendamente senza speranza. La noia delle serate dei giovani manager rampanti tra coca e limousine e i dialoghi non-sense tra cui capolavori assoluti come l’episodio dei biglietti da visita, o quello a proposito delle migliori acque naturali o i ripetuti dibattiti maschili a proposito di abbigliamento ( brani di dialogo che anticipano, in nuce, quelli cinematografici di Tarantino). Un inquietante tour all’interno del distretto finanziario della grande mela, in cui osserviamo i broker e gli impiegati non lavorare per nulla e perdersi in passatempi sterili e serate vacue, in un terrificante sogno premonitore della crisi economica odierna, partita proprio da Wall Street ad opera degli stessi broker, i quali, oggi invecchiati di una ventina d’anni, saranno probabilmente ormai disoccupati o in galera, in un suggestivo crossover tra dimensione della finzione letteraria e dimensione reale. American Psycho è lo specchio e, allo stesso tempo, la palla di vetro preveggente in cui può osservarsi riflessa la società di oggi. Dalla finanza ai costumi , fino alla televisione. Ciò attraverso la satira ( è un romanzo satirico, come ha affermato l’autore), strumento profetico, che rende questo romanzo clamorosamente attuale. La figura della donna, ad esempio, è fatta a pezzi senza pietà: donne esteriori, superficiali, dipendenti da psicofarmaci, incapaci di fare qualunque cosa. Nel sesso posizionabili, utilizzabili come volgari oggetti, sezionabili come manichini, penetrabili (all’occorrenza con motosega e pistola sparachiodi, nel delirio del protagonista). Un atto sessuale che diviene incontro solo di corpi (vuoti, amorfi, insensibili), in una sorta di masturbazione a mezzo persona, a incarnare una incomunicabilità desolante (i personaggi nell’opera non dialogano ma parlano senza ascoltarsi, “monologano”, ognuno ascoltando solo se stesso). La spersonalizzazione è fortissima. Il protagonista descrive le persone solo attraverso gli abiti (descritti perfettamente citando i marchi, in un delirio catalogativo e che si ripete lungo tutto il libro) ma non ne riconosce i lineamenti. Le persone sono quello che indossano, e i volti sono maschere bianche prive di identità ( i personaggi non si riconoscono tra loro, si chiamano con nomi sbagliati). La TV che Patrick Bateman guarda ansiosamente è esattamente quella che vediamo oggi anche in Italia, programmi morbosi e trash: il Patty Winters Show, tormentone di tutto il libro è un ‘incrocio tra un Maurizio Costanzo e L’Italia Sul Due, e gli icastici e apparentemente assurdi titoli delle puntate (ad esempio Ragazze delle Medie Che Fanno Sesso In Cambio Di Crack) sono ormai superati dalla nauseante realtà della televisione del presente. Il tutto descritto attraverso la fredda soggettiva del protagonista, non-eroe moderno, agnostico, disinteressato di tutto (che non sia l’abbigliamento), tremendamente peggiore dell’inetto della letteratura primonovecentesca. Bateman cerca di affrontare la realtà, di ricercare la conoscenza solo attraverso gli allenamenti in palestra, lo shopping, la necrofilia, il cannibalismo. O probabilmente non ricerca assolutamente niente: la noia è il motore dell’azione. In un moderno Grandguignol non parigino, non londinese, bensì broadwayano, patinato, illuminato non da riflettori ma dalla cruda luce delle lampade alogene, l’orrore sale nel corso dell’opera attraverso le efferate gesta di Bateman (forse solo immaginate?) fino a capitoli in cui la violenza esplode in dosi gargantuesche. Insomma American Psycho è un pertugio, una porta dell’inferno sigillata (in alcuni paesi l’opera viene venduta avvolta, chiusa nella plastica), attraverso cui si accede a una realtà rivoltante. La vera realtà. Da cui non si può uscire. Il libro si chiude con la frase “This is not an exit”, questa non è l’uscita. A significare che l’inferno è in terra, il demonio/Bateman è qui in mezzo a noi, nella realtà occidentale. Ancora vivo. Magari nel suo ufficio nuovo in Trinity Place. Sconsigliato ai deboli di cuore e di stomaco. A tutti gli altri: benvenuti all’inferno.

(Pubblicato sulla Voce di Romagna del 29 maggio 2009)