Intorno a “Rush”

3 ottobre 2013

Nuvole tumide sul circuito del Fuji gonfiano il cielo plumbeo, esattamente uguale a quello di una domenica pomeriggio riccionese di fine settembre: il volto sfigurato di Niki Lauda si stampa come una sindone impregnata di olio da motore sulla pellicola cinematografica, il rombo dei motori da Formula Uno esplode nelle casse, i pistoni cominciano a muoversi all’impazzata dentro inquadrature che penetrano lo stomaco meccanico delle monoposto da corsa. L’austriaco si ferma, il fiero avversario britannico James Hunt rischia il tutto per tutto e agguanta con la sua McLaren il titolo mondiale all’ultimo giro. È Rush il film di Ron Howard, proiettato dentro il Cinepalace di Riccione. Stereotipato, vagamente retorico, luccicante nella fotografia hollywoodiana, descrive l’epopea (molto rock’n roll) della Formula Uno degli anni ’70, una sorta di medioevo crudo e violento con i tubi di scappamento e l’odore di benzina al posto dei cavalli e delle armature. Dall’inferno verde del Nurburgring ai rettilinei rombanti di Monza. Istintivo, voracemente dedito alla velocità, Hunt – dimenticando gli eccessi patinati e bozzettistici del lungometraggio – ricorda nell’anima il contegno folle e vibratile di Renzo Pasolini, il fantastico centauro riminese morto tragicamente in corsa proprio a Monza nel 1973 (3 anni prima della gara raccontata nel film). Motori emiliano-romagnoli, bagliori di luce e benzina che si disperdono sopra l’Adriatico: la Romagna vive e sogna a due ruote, da Imola in su invece tutti respirano Formula Uno e monoposto. Ma cosa si nasconde dentro l’anima del centauro (o del pilota, non fa differenza) che sfida in gara a colpi di gas, una curva, un rettilineo? Forse la volontà di fermare il tempo, oltrepassandolo in staccata. O di sconfiggere la morte, incontrandola nel culmine della giovinezza, al massimo delle possibilità, all’apice dell’esistenza. Secondo James Hunt i piloti sono i cavalieri moderni, che sfidano la morte senza timore alcuno. Secondo Pasolini, in una intervista Rai dell’epoca, “quando è ora di morire, si muore”. Indomito e fatalista, col sorriso timido stampato sulle labbra, a tutto gas sul rettilineo della vita.

Pubblicato sulla Voce di Romagna il 1 ottobre 2013

In origine fu il beach volley. Sulla spiaggia di Santa Monica aitanti ragazzotti dei primi anni del ‘900 montano una rete e si mettono a palleggiare. I primi tornei si giocheranno poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale sempre sulle gloriose spiagge angelene: tanto sudore, sabbia in bocca e come premio una cassa di Pepsi. Ci gioca anche Kennedy, Marilyn ne tesse le lodi (del gioco, non di JFK). Chiamalo, se vuoi, sogno americano. La declinazione da spiaggia romagnola è meno mitica e colorata di spiccate movenze da “vitellone”. La coniugazione televisiva si risolve nella sola versione olimpica, nella specifica e inappuntabile accezione femminile – scultorei sederi di femmine tra Rio e South Beach che flirtano coi vent’anni se le danno di santa ragione, una sola rete nel mezzo a separare i furenti ardori agonistici. Del torneo maschile non sono pervenute notizie. O almeno noi non ce ne siamo accorti.
Le spiagge romagnole son belle e hanno un’espressione, nelle cabine colorate mescolate all’accecante luce di mezzogiorno, che è una mezza certezza. Da sempre punteggiate di infinite schiere di reti che dividono rettangoli di sabbia, conoscono da qualche tempo un’insoluta e insolita redistribuzione spaziale. Il nastro si abbassa, la linea arancione che delimita i margini estremi del campo – il confine tra la vittoria e la sconfitta – si allunga. Se prima si giocava in tanti, maschi e femmine in distribuzione omogenea e voluttuosa, con sfera da beach volley nelle mani, ora si battibecca in rigorose coppie unisex, racchettone nelle mani, “ferro e piuma” nelle braccia. Dicesi pomposamente beach tennis, qualcuno lo depotenzia definendolo “racchettoni”, nient’altro che lo sport (il gioco) più in voga nelle ultime estati di Romagna. Nasce a fine anni ’70 dalle parti delle coste ravennati (secondo le fonti origina da una costola dell’oltreumano gioco del tamburello, addirittura un affresco siciliano del III secolo dopo Cristo ne testimonia i primi vagiti), sbarca nella South Coast romagnola poco più di cinque anni fa, diventando un culto solo negli ultimi due anni. Cliccate su http://www.federtennis.it/beachtennis, la federazione fuoriesce appunto da una branca di quella storica del tennis, esistono già oltre 3500 tesserati in tutta Italia, nel comitato nazionale compare il nome dell’abbronzatissimo Massimo Caputi (quello delle telecronache calcistiche della compianta TMC, la parentesi a Quelli che il Calcio versione Ventura preferiamo dimenticarla), esistono svariati tornei che compongono un campionato italiano che prevede fitte tappe nell’estate dello Stivale. Il beach tennis è una variabile meno fighetta e più ruspante del suo cugino nobile, si gioca al volo, la pallina leggermente depressurizzata sorride a coloro che dispongono di una accentuata sensibilità nel braccio, eppure ad alto livello sono i muscolosi bomber a farla da padrone. Da buon sport balneare esalta il narcisismo del pavone da spiaggia che si fa bello con le giovani donne esibendo muscoli, potenza, rapidità e disincantato talento. Eppure rimane gioco che esalta l’agonismo e l’umiltà del dioscuro in sundek e bandana scarmigliata in testa – sacrificarsi per il compagno, tuffarsi sudati nella sabbia profonda per tenere in vita una pallina, nella consapevolezza che da soli non si vince. Anzi. Il bilanciamento e l’equilibrio con il partner diventano il punto di snodo per ghermire la vittoria. Gli scontri più intensi avvengono solitamente nei crepuscoli azzurri di metà giugno (non manca molto, oggi è il primo di marzo, giorno di svolta, valico attraverso cui abbandonare il gelo e raggiungere la primavera) nelle lande semi-silenziose dell’estremità sud di Riccione – il sole è una palla arancione che si nasconde dietro i profili degli alberghi, quattro giocatori – giovani eroi in formato braghe/racchettoni – palleggiano nell’ombra crescente, la quiete della luna balugina nel cielo che vira al blu, l’orizzonte è lì solo per loro. Riccione in fondo esiste solo a metà: un trancio è ripetitivo, sempre uguale a se stesso, rassicurante. L’altro è composto, plasmato da una volée, un tuffo, una pallina che si perde nel radunarsi della notte.
(Pubblicato sulla Voce di Romagna di oggi)

Rieccoli, i Novanta

16 ottobre 2010

L’antefatto è breve e sfuggente, come un’epifania: ci sono duemila ragazzi, forse di più, c’è un club riminese, le casse sparano in breve sequenza Come Mai degli 883 e I Want It That Way dei Backstreet Boys, apparente eresia a raccontarla così su due piedi, eppure i duemila (forse di più) si guardano negli occhi, sorridono, cantano a squarciagola – i ragazzi, cantano insieme, come nei sabati sera ordinari non avevano mai fatto. L’evento si chiama Retropolis, il luogo è il Velvet (www.velvet.it), il meridiano e il parallelo flirtano e si incrociano su Rimini, quella era una notte del 2009, stasera si replica, ma non è mai la stessa cosa. Prendete Inception e trapiantatelo nel mondo dei ricordi, pigliate un po’ di musica saldata a qualche immagine del decennio caldo dell’innocenza, ribaltate i piani temporali, invertite l’inerzia del tempo: questa sera ritornano i Novanta, e ci mancavano parecchio. Come a dire: Trainspotting e Pulp Fiction, Spice Girls e All Saints, Gullit e Van Basten, Beverly Hills e Melrose Place, ci aggiungiamo il Karaoke e Mai Dire Gol al suo apogeo, Alberto Tomba e Pauli Accola su una pista nera ghiacciata. Il revival come non si era mai visto, anche perchè non trattasi di reinvenzione del medesimo, bensì di recupero ponderato (con tanta anima) della decade del sogno. Che porta in esergo il trapasso generazionale (per molti di noi) dalla fanciullezza alla consapevolezza del mondo. Come dice l’amico Lappa “stasera bagarre a volontà, ma con ricerca, provocazione dal gusto post-retrò reinterpretata dallo stesso pubblico a modo suo. Attenzione maniacale e conoscenza enciclopedica del periodo (’80 e ’90 e anche Vintage, nelle tre declinazioni possibili): questo ha reso il Retropolis il principale evento di clubbing retrò del panorama italiano”. Capovolgendo la prospettiva: stasera esci, fai a cazzotti con Liam Gallagher – e non ti preoccupare perchè poi arriva rapido in soccorso Damon Albarn dei Blur a darti una mano – prendi qualche spallata da Richard Ashcroft dei Verve, saluti la barba sfatta di Kurt Cobain, scambi due battute (e basta) con Ewan McGregor, flirti amabilmente con Brenda di Beverly Hills, bevi uno shortino con Geri Halliwell da una parte e Chris Cornell dall’altra. Ovvero, seduta psicanalitica di gruppo con squarcio luminoso sul decennio più sereno, pop e trash della storia. Il Muro è caduto, Osama Bin Laden è ancora un pastore annidato sui monti dell’Afghanistan, Bill Clinton amministra la nazione più grande del mondo e il suo problema più grande è una stagista ventiduenne, i Radiohead spaccano il mondo con Ok Computer, i Verve ci fanno ribaltare sulla sedia con Urban Hymns, noi bimbi dell’anno domini 1993 accorriamo al cinema e sogniamo con Jurassic Park (voi bimbe ci rispondete quattro anni più tardi con Titanic), mentre Roby Baggio l’anno successivo redistribuisce l’entropia del pianeta in un mondiale di calcio americano che sancisce la vittoria della sconfitta, il trionfo del gesto supremo, atrocemente bello e inutile. Noi indossiamo tutti camicie sgargianti e fantastichiamo di uscire in locali che si chiamano Peach Pete e Central Perk. E la domenica tutti all’Aquafan. Guardate il riflesso nel vetro, se avevate 14 anni nel ’98, avete comprato Left Of The Middle di Natalie Imbruglia e vi eravate innamorati della ragazzotta australiana che nel video di Torn limonava con quell’odioso bellimbusto. Tornando a stasera: la formula è la solita, si apre con un misto tra Matricole e Meteore (alle undici e mezza si esibiscono live gli Alcazar, sì quelli di Crying At The Discoteque) poi a mezzanotte e mezza “Back In The 90’s”, il deejay-set che inneggia alla mescolanza musicale totale, una selezione accuratissima di quel decennio. Desideri, volutamente sghembi, per la serata: Born Slippy degli Underworld obbligatoria, My Hero dei Foo Fighters (non la metterete mai), Nella Notte degli 883, poi vabbeh Narcotic dei Liquido chettelodico a fare, Mmm Bop degli Hanson, le sigle di Friends o di Baywatch, su maxischermo che staremo tutti a guardare col naso all’insù – ragazza diciannovenne, se poi ti innamori mentre scorre Mmm mmm mmm dei Crash Test Dummies non dire che non te l’avevo detto.
I ricordi che bordeggiano gli argini del tempo, poi straripano, dilagano, inondano l’aria bollente circostante, la reificazione del flashback che taglia come una lama i pensieri, contano solo il Qui e l’Ora, non il Perchè, migliaia di camerette che si incrociano ed uniscono in una sera, chiamali ricordi o se vuoi emozioni o semplicemente la smagliatura della realtà – il bisturi conficcato nello spazio-tempo fiocina e ribalta la pelle ai minuti. Guarda, ci sei te bambino dentro.

(Pubblicato oggi sulla Voce di Romagna)

Dopo un viaggio a piedi di oltre mille miglia, una banda di avventurieri messicani si raduna vicino a un piccolo fiume per stabilirvi un insediamento: El Pueblo de Nuestra Senora la Reina de Los Angeles de Porchiuncula. Poi si chiamerà solo El Pueblo. Il nome definitivo l’avete già capito: Los Angeles, la città degli angeli e delle stelle (costruita su un cimitero di elefanti). Da quel giorno del 1781 ad oggi il tempo è passato in un soffio, e dove c’erano i baffuti coloni messicani adesso c’è Kobe Bryant con i suoi Lakers che riazzanna il titolo NBA, intorno a lui il consueto cast di star in libera uscita, la collina hollywoodiana e una città sterminata (nel senso di infinita) che piega l’immaginario collettivo, insomma ci siete stati tutti anche se non ci avete mai messo piede.
Una striscia di terreno sottile, la Los Angeles County Strip, una terra amena e collinosa, con al centro una strada sterrata, l’embrione di Sunset Boulevard (più che una strada, quasi una condizione di vita) è l’inizio degli anni ’20, siamo in pieno proibizionismo, si crea un vuoto giurisdizionale su questo strano lembo terrestre, qualcuno comincia a costruirci edifici commerciali ed eleganti alberghi, contemporaneamente un signore chiamato Cecil B. De Mille decide che a Los Angeles c’è la luce giusta, il clima perfetto, quella è la città del cinema. Clima mite – sembra una stringa di Mediterraneo innestata su una faglia sismica in bocca all’Oceano Pacifico -, edilizia a buon mercato, le compagnie americane vi si trasferiscono in blocco dalla East Coast.
Nasce il mito. Ripercorso in Hollywood: istruzioni per l’uso, curato da Andrè Balasz, edito qualche anno fa per Bompiani, libro fotografico di lusso (tra gli altri, foto di: Helmut Newton, Julian Schnabel, Annie Leibovitz, Spike Jonze) con brani di autori importanti (qualche brandello di Faulkner, ad esempio). Concepito anche e forse come uno spottone per lo Chateau Marmont, lo stranoto albergo all’8221 di Sunset Boulevard (sì, quello dell’ultimo film di Sofia Coppola), una sorta di Overlook Hotel un po’ più luccicante (la parola non è casuale) piazzato però nel centro del mondo – qui ci muore John Belushi, ci alloggiano spesso Roman Polanski e Sharon Tate, James Dean e Dennis Hopper ne fanno di tutti i colori durante le riprese di Gioventù bruciata, insomma un luogo pieno di fantasmi, è la location del dimenticabile film a episodi Four Rooms (quello col frammento di Tarantino, 21 minuti, una suite imperiale, un dito mozzato, Tim Roth e Bruce Willis un po’ sopra le righe e ben 193 fuck) – ed è bellissimo, ti ruba l’anima. Nel libro c’è un brano in cui Jay McInerney (l’autore di Le mille luci di New York) racconta il suo smarrimento nei corridoi del meraviglioso hotel, lo stupore nell’osservare da una suite “i magnifici giardini pensili di Babilonia” (dalla mezzaluna fertile ad una stella fertile). “Un posto in cui ci si sente troppo vestiti in cravatta e nudi senza una sigaretta”. Bene, bello lo Chateau Marmont (ci stava anche Howard Hughes), ma è meglio respirare l’aria della Los Angeles dura e trafficata, volare tra Beverly Hills e Santa Monica fino a Manhattan Beach, e scoprire che qui si è ondeggiato per decenni tra Messico e Stati Uniti, fino al 1847, anno in cui viene firmato il trattato di capitolazione e sulle terre angelene baciate dal sole può finalmente sventolare la bandiera col “California Bear” impresso. La scoperta dei giacimenti d’oro nel nord californiano sposta parecchi equilibri anche qui, e la ferrovia non tarda ad arrivare. Nel 1883 il proibizionista Harvey Wilcox giunge dal Kansas
e acquista 120 acri di terra su cui costruire una nuova proprietà. La moglie Daeida decide di chiamarla Hollywood (copiando il nome dalla simpatica vicina), cioè “bosco d’agrifoglio”, solo che l’agrifoglio nella California meridionale non cresce. La signora desiste dalle manie di giardinaggio, il nome rimane e permane nei secoli dei secoli (quelli che verranno), su quel terreno, nei vostri sogni, ci avete passeggiato un bel po’. Gli elementi naturali scandiscono l’inerzia del tempo a Los Angeles: 250mila anni fa branchi di mammut preistorici ci pascolavano allegramente (i fossili li han trovati in mezzo alle colline in pieno boom edilizio) – esistono su questo pianeta luoghi predestinati ad accogliere la vita ed al contempo stravolgerla -, il petrolio viene trovato nel 1892, e allora viene trivellato ogni angolo della città. Il 1913 è l’anno dell’acqua, William Mulholland (una strada pazzesca prende il nome da lui, un film onirico ne consacra il cemento) progetta l’acquedotto del fiume Owens che devia il flusso proveniente dalla Sierra, rendendo disponibile la fornitura regolare del liquido che dà la vita. La definitiva ascesa al paradiso incomincia in quel momento, l’elusivo e proibito Eden in terra è quello (anche se gli indiani Cahuanhas l’avevano già capito da un pezzo, piazzarono i loro villaggi sulle colline “da cui si partono i monti e dove si è ben protetti dai venti del nord” dal diario di bordo dell’antico cronista Cabrillo), la Storia (del Cinema e non solo) può cambiare. Una collina con 9 lettere appoggiate sopra (prima erano 13) è lì a simboleggiare il mito. Hollywood. Di lì in avanti i segreti son pochi, leggete un libro di Ellroy, guardate un film di Lynch (Mulholland Drive, ve ne accennavamo sopra), sbirciate Il Grande Lebowski, o semplicemente aprite gli occhi. Un paio di chicche che trovate solo nel libro suddetto: i Premi Oscar visti da Harold Brodkey, giornalista e scrittore, definito dal sommo critico Harold Bloom “un Proust americano, un Wordsworth che chiacchiera con Geena Davis, un uomo per cui l’essenza della vitaè una questione di S&M, Seduzione e Minaccia. E poi un racconto brevissimo di William Faulkner, Terra Dorata, in cui il supremo scrittore (che scrive tante sceneggiature – pare 24 – per Hollywood, mai riconosciute) si confronta con l’immagine metafisica della città, una storiella familiare hollywoodiana in piena regola, segata in due dalla sua consueta visione, penetrante e squarciante).
“Un posto splendente con la coscienza sporca” disse Orson Welles, inferno e paradiso al tempo stesso, Los Angeles, città di angeli troppo spesso caduti, “città succosa/ tragica e pietosa./ Cuccetta, usa e getta, e genio/ Mischiati a sorpresa…/ sgargiante e tremenda/ assurda e stupenda”. Lo cantavano nel musical Star Night at the Cocoanut Grove, correva l’anno 1935. Provate ad andarci. La città è pronta a mangiarvi.

Lo chiamano Machete

29 luglio 2010

Licantrope naziste in giarrettiera con professore pazzo e Nicholas Cage as Fu Manchu annessi. Case stregate con fantasmi e mostri di ogni risma. Un assassino seriale con rivedibile feticismo per il tacchino del Giorno del Ringraziamento. E poi lui. L’idea dei “fake-trailer” nasce dalle menti malate (e inevitabilmente superiori) della coppia Rodriguez-Tarantino. Il contenitore in questione era il double-feature vintage Grindhouse (correva l’anno 2007), operazione nostalgica di rifacimento dei b-movies anni ’70: malino al botteghino, in Italia tagliato in due – Death Proof per Quentin (bene ma non benissimo, valeva la pena per Kurt Russel serial-killer e per i piedi di Rosario Dawson), Planet Terror per Robert (carino, bene Bruce Willis spappolato e Rose McGowan con un kalashnikov al posto della gamba). In mezzo, nella versione americana, quattro finti trailer piazzati lì come un cioccolatino dopo pranzo in inverno, in perfetta tradizione “explotation”: pellicola sgranata, distonie ad hoc, finte sigle, sapori squallidi, pubblicità di un osceno take-away tex-mex. Ecco, Werewolf Women of the SS era un titolo di bellezza rara, ma il cuore parteggiava inevitabilmente per lui: “Conosce le regole del gioco, ammalia le donne, uccide i cattivi, lo chiamano Machete” e Danny Trejo salta sulla moto con un un bazooka enorme montato sopra, lanciando coltelli con la lama di 40 centimetri. Il paradiso del tamarro (e del teen-ager, alternativamente). “Action, thrill, kill”, come recita il teaser dal sapore retrò. Ogni tanto ci vuole.
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Ecco Machete è l’espansione del suddetto fake trailer, insomma uno spin-off al cinema. Flashback. Ci sono George Clooney e Quentin Tarantino che sono fratelli, rapiscono una famigliola americana in camper e per sbaglio si imbattono in un locale al confine col Messico costruito su un antico tempio azteco. Pieno di vampiri. Seguono dissanguamenti e macelli vari. Dal tramonto all’alba era stato il film preferito dai teenager nella stagione 1996/97, Rodriguez dirigeva l’opera con ragionata follia. Ci si ricorda 4 cose di quel film: la colonna sonora meravigliosa (ZZ Top, Steve Ray Vaughan), George Clooney tatuato fino al collo che inclina la pistola, Salma Hayek-Satanico Pandemonium che balla con un boa enorme sulle spalle e Danny Trejo che fa il barman del Titty Twister (il locale maledetto) che si trasforma in vampiro. Ecco la faccia segnata come una pista di rally dell’attore feticcio di Rodriguez torna nel ruolo del protagonista assoluto di Machete, mexplotation ad alto budget che esce in America il 3 settembre, per la regia di Robert Rodriguez, con lo zampino di Quentin Tarantino, ma che soprattutto sarà presentato in anteprima mondiale al Lido di Venezia come film di Mezzanotte nella serata d’apertura della 67 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica il primo settembre. Piccolo particolare: Tarantino è il presidente della giuria, e quindi dal 1 all’11 settembre il Lido sarà praticamente di sua proprietà. Divertimento veneziano in arrivo per Robert e Quentin. I due sono come gli adolescenti che che si incontrano il pomeriggio e sghignazzano rumorosamente guardando boiate su YouTube: si divertono parecchio, meglio se lavorando insieme. Quelle che chiami le certezze della vita.
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Machete è un ex agente federale messicano tradito dall’organizzazione che lo ha assoldato per uccidere un senatore americano. Con l’aiuto di suo fratello, un prete alquanto atipico, l’uomo pianifica ed esegue una sanguinosa vendetta, eccetera, eccetera. Tutto molto bello, direbbe Bruno Pizzul, però ancora non vi abbiamo sfagiolato il cast di Machete. Che può interessare abbastanza. Ok, Danny Trejo è Machete. Poi. Cameo del buon Steven Seagal che è un signore della droga, si prende a schiaffoni con Machete all’inizio. Michelle Rodriguez è Shè, “a sexy-taco truck lady” tipo una camionista gnocca, con lo spirito ribelle e il cuore da rivoluzionaria. Occhio adesso: Robert De Niro (avete capito bene, c’è anche Bob) nel ruolo del senatore. Jessica “Ti voglio bene” Alba nel ruolo di Sartana (citazione da spaghetti western), un’agente dell’ufficio immigrazione (solo carina) combattuta tra far rispettare la legge o fare ciò che è giusto (un po’ Antigone, un po’ Uma Thurman), Lindsay Lohan as The Sister, lo dico in inglese perchè suona meglio “a nun with a gun”, una suora con la rivoltella. Poi c’è anche un Don Johnson agente sul confine, brizzolato e con cappellone da cowboy d’ordinanza. Diciamo che poteva andare peggio. Signori, al Lido ci divertiamo.
(Pubblicato oggi su La Voce di Romagna)

Foto Victor Caivano/AP

Vorrei avere la faccia di Diego Milito, i tratti da bandolero triste, da avventuriero stanco, l’occhio opalino che fa capolino sopra il naso sghembo, l’incedere rapido, l’eleganza claudicante ed apparentemente scoordinata che ti accoltella come una folgore nel buio. Con quella faccia un po’ così, quelle movenze un po’ così (Genova c’entra eccome in questa storia) il Principe “mata” l’Europa, assaggia ogni filo d’erba del tempio laico chiamato Santiago Bernabeu, in cui s’officia al rito pagano chiamato Champions League. La divinità che si fa uomo – non siamo blasfemi – l’apparente uomo comune che spacca il mondo a 31 anni suonati (benedetto l’anno 1979 ci regala Valentino Rossi e il Principe, “anziani” che giocano come bimbi infiniti), Diego uno di noi, quello normale che si fa il mazzo, che gioca in serie B (stagione 2004-2005, 26enne) e gira con un’utilitaria con il marchio dello sponsor attaccato. Il Gaucho è argentino nel midollo (ma possiede anche chiari ascendenti italiani) la sua storia sembra un romanzo di Cortazar tanto è contorta e letteraria. La trafila della carriera è pazzesca: Racing Avellaneda, Genoa, Real Saragozza, Genoa (in serie A, stavolta), Inter. In mezzo ci sono valigette piene di bei dollaroni (vedi presidente Preziosi, Genoa sbattuto in C1), incroci di sangue (il fratello Gabri va nel Barca dei sogni, lui no, ignorato, torna a Genova, con quella faccia un po’ così non poteva essere altrimenti), campionati folli, vagonate di gol tra Saragozza e l’Italia, sembra un pirata, Diego, uno che tracanna il destino, in campo si spende, si spande, morirebbe per il solo gusto del gol, dell’assalto all’arma bianca. L’epilogo del Bernabeu sembra un labirinto di Borges, a Madrid si intrecciano e si annodano tutti i fili di un anno di calcio e non solo. Il Real che a inizio anno allestisce l’operazione “Finca”, Final de Campeon (casalinga), spende fantastiliardi, compra Cristiano Ronaldo e Kakà e caccia Robben e Sneijder, olandesi volanti che invece squarciano la stagione e si incontrano nella finale madrilena (non a caso) – incoronati giocatori più talentuosi dell’anno. Il comandante Mourinho che saluta tutti a Milano col Triplete, giocando l’ultimo match nello stadio in cui allenerà l’anno prossimo (o meglio il tempio in cui predicherà il suo vangelo nell’entrante anno domini). E Diego che potrebbe seguire il guru sull’altopiano spagnolo, beffa delle beffe, da reietto nella periferia di Saragozza a eventuale “camiceta blanca” nel Real galattico. Diego Milito che incarna la triade rigorosamente argentina “cabeza, corazon y cojones” è un po’ come il conterraneo Ginobili (enorme campione NBA argentino) gode nella sofferenza, si esalta nel dolore – i crampi sono la via per l’ascesi mistica nel suo infinito 2009/2010. Cristiano Ronaldo in un eventuale film agiografico sarebbe interpretato dal “guevarista” Gael Garcia Bernal (come suggerisce il nuovo omerico spot Nike), Diego Milito non saprei da chi farlo interpretare, forse un Javier Bardem dimezzato e preso a cazzotti fino alla frattura del setto nasale. Sul campesino con la faccia da povero non scommetteresti un copeco, poi gli arriva una palla corta sulla tre quarti di campo, un luogo in cui di solito un attaccante temporeggia o si appoggia, e invece Diego no, lui va avanti, finta, flirta col pallone, finge di incespicare, manda a farfalle il cyborg Van Buyten, il Bernabeu si zittisce, l’occhio opalino del Principe taglia come un laser l’aria densa madrilena, poi col piede destro colpisce di interno piegando innaturalmente le ginocchia. Il gol è una slabbratura nello spazio-tempo, l’esultanza folle è un flash-sideways – in stile Lost – che seziona il prato di Madrid, il paradiso delle merengues trasmuta improvvisamente in qualcos’altro, eccolo, Milito che risale conradianamente il Rio de La Plata, il fiume denso dell’esistenza, un Corto Maltese col naso storto che gioca a dadi con la vita. L’uomo da Bernal, Argentina, che guidava un’utilitaria, vincerà il Pallone d’Oro – se Maradona ai Mondiali lo farà giocare. Quell’altra cosa, grumosa, infinita, la gloria, l’ha già ghermita con una staffilata. Un po’ principe e un po’ pirata.

(Pubblicato sulla Voce di Romagna del 25 maggio 2010)

Marco Van Basten non allenerà il Milan (almeno per ora). La caviglia glielo impedisce (?), forse vuole evitare di ricevere un po’ di chiamate al cellulare da parte di un datore di lavoro un po’ingombrante. O forse semplicemente non se la sente. Marco è un mito (nel vero senso della parola). Io spero che il Milan non lo alleni mai. Per farlo dovrebbe scendere nel regno degli uomini mediocri (Leo lo ha fatto con uno stile e una classe infiniti, non gli è bastato). Una divinità come lui dovrebbe rimanere intoccabile, intangibile.
Ode a Van Basten.

L’inizio è un’epifania. Io il 25 giugno 1988 probabilmente ero al mare. Avevo quattro anni, non potevo capire. Me l’avrebbero raccontato dopo. Avrei compreso solo a posteriori. Avrei ricostruito con precisione qualche anno più tardi. Qualcosa che non svanirà mai. Quello era il giorno in cui la bellezza si manifestò. Il luogo è l’Olympiastadion di Monaco di Baviera. La partita è la finale degli Europei di calcio tra Olanda e Unione Sovietica. Tra le file degli arancioni c’è un ventitreenne che sul campo ha già fatto vedere tanto, tantissimo. E’ il cinquantatreesimo minuto e l’Olanda è già in vantaggio 1 a 0. Ecco, in quell’istante il tempo si ferma. C’è un gol che avete visto tutti un milione di volte. Cross (inutile) dalla tre quarti di Muhren. Il ventitreenne, così magro da sembrare uno stambecco, è in area che attende la palla. Inspiegabilmente non le va incontro, bensì incomincia ad allontanarsi, laggiù, verso la linea di fondo. Il resto è miracolo, manifestazione, sospensione momentanea dell’esistenza della forza di gravità. Non spiegabile a parole. Solo uno stambecco che colpisce di destro e una palla che si insacca nell’angolo opposto. Sembra un quadro. Rinat Dasaev non è il pittore. E’ il portiere che subisce quel gol. Rimarrà nella storia per essere stato presente, involontario protagonista, durante una rara manifestazione dell’esistenza dell’oltreumano. Uno di quelli che chiamano “uomini da poster” perché rimangono nella fotografia di fianco alla divinità. La divinità in questo caso è semplice da identificare. E’ lo stambecco. Che occasionalmente potrà poi trasformarsi in un cipresso(capirete poi). Quel giorno di giugno il ragazzo chiamato Marco Van Basten si consegna, attraverso l’essenzialità assoluta di un gesto, alla storia dello sport e non solo. Vi sarebbe rimasto comunque. Ma quella è la manifestazione di un momentaneo contatto con la divinità. Contatto cui Marco non rifuggiva.
Mai.
Questo pezzo parla di un personaggio e di un calciatore per cui mi pare riduttivo sprecare degli aggettivi. Li sprecherò, poiché su questa pagina possiedo solo essi e poco altro. Questo pezzo parla anche di un libro che non c’è. Che non è. Più. Si chiama Canto del Cigno (Limina, 123 pagine, 13,50 Euro). Lì, nel titolo, è l’unica volta in cui viene nominato il volatile. Lo ha scritto un giornalista che si chiama Andrea Scanzi, io (e non solo io) lo trovo geniale, Scanzi. Il libro, non riuscivo a trovarlo. Glielo ho chiesto direttamente a lui. Mi ha risposto così, testuale: “Non so come aiutarti Marco”. Io l’ho scovato in un recondito fondo di magazzino
grazie alla mia libraia, non so in che modo (grazie, Isabella). E’ bello non dovere andare a comprare i libri nei centri commerciali. Tutto questo mi ha reso questo libretto tremendamente prezioso. Il sottotitolo del libro è “Gol, gesti e bellezza in Marco Van Basten”. In soldoni, è un’analisi della figura di Marco attraverso gli episodi, ricercandone (non è difficile in questo caso) gli squarci di accecante bellezza prodotti. La tesi provocatoria di Scanzi: la forma predomina sul contenuto. Non è una bestemmia fragorosa. Una forma rarefatta, cristallina, eccedente la realtà stessa. Che bello raccontare lo sport attraverso la forza adamantina della letteratura, della pittura, della musica. Scanzi lo fa magistralmente (potete crederci, il libro non esiste più, non ve lo devo propinare in alcun modo, in giro non lo trovate, se me lo chiedete forse ve lo presto, forse, ho detto). Marco viene narrato cronologicamente dagli immensi inizi nell’Ajax, quando (non è un caso) esordì sostituendo proprio Johann Cruyff (stagione 1981/82, un passaggio di consegne non ostentato ma consapevole a priori) lungo tutta la carriera (col Milan e con l’Olanda) fino al precoce ritiro del 1995, in una biografia assolutamente anticonvenzionale. Ci viene raccontato Marco nei suoi gesti, nelle sue movenze, non nella pleonastica vita privata. Attraverso i dipinti di Van Gogh (“Van Gogh l’avrebbe dipinto come un cipresso. Bello come un obelisco egizio. Di una tonalità di nero tra le più difficili da riprodurre. Contro l’azzurro. Nell’azzurro”), attraverso la musica di Bruce Springsteen (“Se Gullit era Born to Run, corsa e movimento ininterrotto, Marco era Nebraska, il disco inspiegabile di Springsteen, di una bellezza acustica, in bianco e nero, spoglio, minimale. Non il sole, ma le nuvole a strapiombo”). Marco viene interpretato alla luce del modo di essere contraddittorio del suo paese, l’Olanda, sempre in bilico tra democrazia illuminata e colonialismo spietato, nella sintesi del blend, la mediazione tra istanze alte e basse. Van Basten non può non essere figlio di Rembrandt, innovatore e genio universale, non può non disegnare sul campo le Controcomposizioni di Mondrian e Von Doesburg, è l’unico calciatore olandese (insieme a Cruyff) ad essere veramente amato dal popolo. Perchè rappresentante del popolo olandese, “avanguardista, esule, iconoclasta. Evoluzione verso la forma pura, il colore puro. Scheggia di calcio totale. Forma di passato in un presente non suo”. Il libro poi prosegue aureo tra citazioni di Salinger, Marias, Pessoa, Galeano, Carmelo Bene.
Van Basten è stato uno dei calciatori più naturalmente letterari della storia. Non per i comportamenti fuori dal campo, non per la prosopopea, non per la recitazione (quella la lasciamo a Maradona). “Marco esteticamente non fu mai spiacevole, era sempre bello.” L’eleganza nell’incedere e nell’eccedere il reale senza travisarlo mai, senza stroppiarlo inutilmente, la bellezza del gesto mai ridondante, per nulla barocco (“gli slavi sono barocchi”, cit.), la capacità di non ostentare il movimento agendo attraverso la sottrazione, inconsapevolmente facendo propria la lezione dell’architetto razionalista (olandese come lui) Berlage. “Non elargiva il proprio talento. Lo mostrava a piccoli sorsi, con educazione”. Non era bulimico né egoista, bensì tendente al didascalico, alla sottrazione. Uno che produceva opere d’arte attraverso il movimento. Freddo ma mai catacombale, timido ma mai troppo algido, serioso ma per nulla schumacheriano, Marco vince tre palloni d’oro, un paio di Coppe dei Campioni col Milan, il resto del palmares andatevelo a vedere voi su Wikipedia, i numeri e le cifre mi piacciono poco. Marco è riuscito anche nell’impresa di non barattare il mito con la matematica, di non travisare l’epica con un deposito catastale. L’ultima partita della sua carriera la gioca il 26 maggio 1993 nella finale di Coppa dei Campioni contro il Marsiglia, a Monaco di Baviera (un cerchio che si chiude, ricordate l’Olympiastadion?). Le tenebre di quella caviglia maledetta ci privarono per sempre della sua bellezza (“la caviglia scricchiolava come la sedia di Arles di Van Gogh, come l’impercettibile fruscio di Nebraska”). Ce lo massacrarono sotto gli occhi (ce l’avevano massacrato per tutta la carriera). Marco muore sportivamente a 28 anni. Uno un po’ più bravo di me ha detto: “La vita svela i difetti, le mancanze, le malattie; la morte la indossano i santi, nell’assenza vince chi ha più fantasia”. Marco aveva più fantasia, una fantasia diversa, anche nella presenza. L’aver smesso così presto ne ha amplificato il mito (che di per sé non avrebbe alcun bisogno di essere amplificato, proprio perchè Marco era bravo a minimizzare, a “sottrarre”). Marco sul campo non è mai invecchiato, rimane eterno come una poesia di Rimbaud, un urlo di Kurt Cobain, un sorriso di Heath Ledger (tutta gente che si è fatta da parte, inevitabilmente, e ancor più definitivamente di lui, alla sua età).
Marco lo si ricorda sgranato, nei pantaloncini stretti, nelle rare interviste. Se giocasse oggi nell’eccesso dell’HD e nella abbondante dose di interviste probabilmente non sarebbe la stessa cosa, non ci potrebbe “privare del suo privato”, le sue opere d’arte sarebbero troppo nitide, sarebbero radiografie
inutili.
Philip Roth (che è citato nelle epigrafi del libro) nell’Animale morente dice: “Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza”. Davanti a Marco siamo ancora disarmati.

(Pubblicato sulla Voce di Romagna del 12 dicembre 2009)

L’impatto devastante di un incipit ha la forza contundente di mille aforismi, a un buon scrittore bastano cinque parole per precipitarci in un pozzo senza fondo. La prima frase di un libro è ad un tempo fondamentale, ha lo stesso impatto fondante delle epigrafi, introduce, dà il la simbolico al dipanarsi dell’intreccio, cela e svela allo stesso tempo il nucleo dell’opera. Ma ovviamente non basta buttare lì una buona prima riga, né un’epigrafe colta per scrivere un grande libro, la frase d’apertura può essere uno specchietto per allodole, fumoso e fuorviante. Penso agli inizi memorabili dei libri che ho letto, si potrebbe scrivere un libro elencando i migliori inizi (lo avranno già fatto, sicuramente), sarebbe un torrente di suggestioni. Un giochino vecchio, direte, quello degli incipit affascinanti, però sempre divertente. Avrei voluto essere Stephen King per aprire Misery con l’onomatopeico e sciamanico “umber whunnnn yerrrnnn umber whunnnn fayunnnn. Questi suoni: nonostante la nebbia” dentro c’è tutta l’inquietudine del libro, oppure James Ellroy per aprire American Tabloid con l’indimenticabile “Si faceva sempre alla luce del televisore” riferito ad Howard Hughes in pieno delirio tossico che si spara uno speedball di eroina e cocaina nella sua solitudine buia e dorata. L’inizio può essere anche solo un esercizio carino di stile, oppure un icastico e fulmineo manifesto programmatico delle intenzioni dell’autore: si prega di leggere Bret Easton Ellis, uno dei più terribili profeti del nostro tempo: “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate sta scribacchiato a grandi lettere rosso sangue sul muro della Chemical Bank all’angolo tra l’undicesima e prima” è l’inizio di American Psycho, e in due righe c’è già tutto, l’inferno (citando Dante) che poi è la vita, il sangue (di cui è irrorato tutto il libro) e New York, più che un personaggio, un mondo dentro un mondo. Gli inizi di Ellis sono esemplari per ritmica e per intenti: “Puntini – sul terzo pannello ci sono puntini dappertutto non vedete?” l’inizio di Glamorama – con il protagonista che parla col lettore istupidendolo con la spiegazione di un particolare futile – è una dichiarazione rapida dell’inutilità del tutto, dell’orrore del reale, 725 pagine condensate in un periodo (“a giudicare dalle vostre brutte facce ho la netta impressione che il perchè non avrà risposta”) e infatti al termine dell’opera non vi saranno risposte, solo un buco nero, tetro, irritante.
Per un incipit suggestivo e sognante? Don DeLillo, Underworld: “Parla la tua lingua, l’americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza” apre un fiume enorme e trascinante che ti travolge fino alla millesima pagina su e giù per il Novecento americano, una pallina da baseball a condurre le danze, potrebbe essere l’inizio di un film di Spielberg (non lo sarà).
Il gioco è bello finchè è corto, si potrebbe andare avanti all’infinito, parlando di tutto e niente, ci sono libri fondamentali che hanno incipit apparentemente anonimi e viceversa libri inutili con inizi stordenti. Rimane il gusto della suggestione, dell’inizio del viaggio, della fuga in avanti dentro le pagine. Un tuffo dentro il precipizio.

(Pubblicato sulla Voce di Romagna dell’8 aprile 2010)

Vedi Boris, e poi la televisione non la guardi più. Ok, il binomio (o è un monomio?) Raiset era già stato ampiamente estromesso dalle rotazioni dei pollici sul telecomando (rigorosamente satellitare) di chi un po’ di sale in zucca ancora ce l’aveva. La televisione cosiddetta free è finita. Per tanti motivi. Uno di questi è sicuramente il fatto che Boris su Rai e Mediaset non ci metterà piede. Mai. La motivazione è quasi ontologica. Il telefilm italiano trasmesso su FX (bouquet di Sky, dopo il restyling il miglior canale della TV satellitare italiana) giunto alla terza serie, è lo specchio osceno in cui si riflette, attraverso lo strumento della satira, la fiction italiana. Per chi non lo sapesse Boris è ambientato sul set di una fiction televisiva del nostro paese (nelle prime due serie una simil- telenovela in ambito medico Gli Occhi del Cuore, nella terza un più moderno e anglofono Medical Dimension). E’ il miglior prodotto televisivo creato negli ultimi 5 anni nel nostro paese. Boris è fantastico perchè scorretto fin dal primo vagito, ironico e graffiante fin dai primi passi, una fiction nella fiction, caustica, straniamento elevato al quadrato, presa in giro maiuscola del nostro paese. Dove i disabili son più carogne degli abili (come devo chiamarli?), dove alla richiesta dell’attrice di poter effettuare la raccolta differenziata sul set si risponde “Mi sono informato, purtroppo per un provvedimento circoscrizionale è vietato, sa, siamo in Italia”, dove il capo-reparto dei tecnici di scena sfrutta il ragazzo del sud come schiavo (“era bello averti come schiavo, meridionale, magro, con quegli occhiali, un pezzente della Basilicata”). C’è il delegato di rete, impersonato da un fantastico Antonio Catania, subdolo, calcolatore (“Ecco le nuove direttive che arrivano dai piani alti, dobbiamo conquistare la fascia d’ascolto rappresentata dagli AA, abbronzati e abbienti”). C’è un Pietro Sermonti incredibile nel ruolo del divo Stanis, imbarazzante e ridicolo. (“Mi aiuterai a piacere ai ricchi?”). Il regista è interpretato da un bravissimo Francesco Pannofino (conoscete la sua voce, doppia egregiamente George Clooney e Denzel Washington, ma anche il Grissom di C.S.I), sull’orlo di una crisi di nervi. E poi si profetizzano reality assurdi (La casa senza cesso è una perla assoluta, neanche tanto assurda visto il GF di quest’anno), crossover inaspettati con la realtà (l’Hotel Veronica, offerto dalla produzione della concorrenza, una Caterina Guzzanti, assistente di scena, che fa parte dei giovani del PDL, ed esiste un sindacato chiamato Sceneggiatura Democratica). E poi c’è un ritmo irresistibile, un po’ americano, ma non troppo, ospiti diversi ad ogni puntata (Laura Morante e Filippo Timi, un cameo divertentissimo del regista Paolo Sorrentino). Quanto basta per far scomparire in un buco nero la TV generalista (per quel che mi riguarda non ha più motivo d’esistere).

(Pubblicato sulla Voce di Romagna del 27 marzo 2010)

James è tornato

3 febbraio 2010

E’ uscito ieri Il sangue è randagio del maestro James Ellroy. Questo libro chiude la feroce Trilogia dell’Underworld Americano. Ripeschiamo dal dimenticatoio questo pezzo di qualche mese fa in cui si parla dei primi due capitoli della Saga Americana.

C’è uno scrittore che se lo leggi ti cambia la vita. Uno
che quando giri pagina senti sulle labbra sapore di sabbia e hamburger.
Uno che ti sveglia con un calcio in faccia (no, non è il generale crudele
di Full Metal Jacket). James Ellroy è la crudezza inusitata che si fa scrittore.
Non bastavano i suoi gialli di inizio carriera, già poco convenzionali.
In quelle opere paradigmatiche di fine anni ’80 (tra cui Black Dahlia e
L.A. Confidential), Ellroy segue e allo stesso tempo radicalizza le lezioni
della scuola americana di Dashiell Hammett e Raymond Chandler. Prende,
sculaccia e mette sulla piastra elettrica tutti gli elementi (di per sé
già rivoluzionari) della letteratura hard-boiled. Magnati pedofili, poliziotti
malati, gente che seziona e impaglia le donne. Sono anni ’50 terribilmente
duri quelli descritti dallo scrittore californiano. Che però raggiunge
l’apice della propria scrittura nell’epico racconto dell’underworld americano,
nella trilogia che si completerà solo tra qualche mese in Italia e in questi
giorni negli Stati Uniti. American Tabloid è stato il primo capitolo della
cruda epopea e si chiudeva con l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy.
Sei pezzi da mille è stato il secondo atto della Grande Tragedia Della
Storia Americana. E’ un atto feroce, epico, spietato. Dalla morte di JFK
a quelle di suo fratello Bob e di Martin Luther King. Si inizia con la
morte e si termina con la medesima. Ellroy ha definito la sua opera alla
stregua di un “gattonare in una cloaca”, uno strisciare nella fogna oscena,
negli angoli più reconditi e oscuri della storia degli Stati Uniti, la
Nazione per eccellenza. Una nazione fondata sulla “pietra angolare del
razzismo, della schiavitù delle popolazioni indigene, della demenza religiosa”
(come dice l’autore stesso). Se il primo capitolo della storia recava ancora
con sè i residui vestigiali della crime-novel Ellroyana classica (se di
classicismo si può parlare con un autore che rifiuta qualsiasi cosa che
sia diversa dalla propria penna e il proprio inchiostro), Sei pezzi da
mille esplode come una granata zeppa di schegge vetrose contundenti in
faccia al lettore. Se il contenuto della storia è nudo e crudo, è realtà
che entra nell’intreccio, Storia (sì, con la S maiuscola) che transuntanzia
in sangue e carne, allora il registro linguistico è lama affilata, rasoio
penetrante al servizio del contenuto stesso. Significante che si fa significato,
anzi che lo rafforza, che inzuppa le mani lorde di sangue nel ventre osceno
dell’America e ne tira fuori l’orrore più nero. Stile declarativo diretto,
telegrafico, frasi brevi, staccato style, densità di termini gergali americani,
invettive razziste, elementi ebraici, francesi e spagnoli, old american
slang. É profanazione creativa, eroina vernacolare, benzedrina grammaticale.
Non esistono nell’opera proposizioni subordinate. Solo proposizioni principali
raccordate unicamente dal punto, full stop di forza radicale. Oppure dallo
slash, elemento quasi figurativo che scansiona temporalmente i gesti, suddivide
le frasi in fotogrammi quasi filmici, muta in pellicola impressionabile
le bianche pagine. E’ la forma che si fa contenuto, rappresentazione espressiva
stessa della violenza agli occhi dei tre protagonisti dell’opera. Un esempio
sfolgorante nel prologo: “Gran parte dei negozi aveva chiuso in anticipo.
Le bandiere dello Stato erano a mezz’asta. Alcuni avevano issato quelle
della Confederazione. Moore si mise al volante. Moore aveva un piano: passiamo
dall’albergo/ti sistemiamo/troviamo quel baluba. JFK – morto. La cotta
di sua moglie. La fissazione della sua matrigna. JFK faceva bagnare Janice.
Lei l’aveva detto a Wayne Senior. Janice aveva pagato. Janice aveva zoppicato.
Janice aveva ostentato i lividi sulle cosce.” Ellroy non scrive. Ellroy
ruggisce. Ellroy strofina le parole come M-16. Ellroy strofina le parole
come bazooka. Porta guanti di gomma. Passa una spazzola d’acciaio. Passa
soda caustica sulle proposizioni. Divora i periodi in un bunker saturo
di scoregge e polvere da sparo. Se fosse un film (impossibile trasporre
davvero l’immensa materia in un’unica pellicola, forse si farà una serie
TV di alto livello) sarebbe reso nello stile di Sin City. Ellroy ha una
scrittura che si avvicina molto allo stile della graphic-novel e del fumetto
all’americana di Frank Miller o di Bob Kane. Pare di vederle le vignette
deformate, i nasi squarciati, le orecchie mozzate, i personaggi come caricature
allucinanti (“Bob gridò. Bob vomitò. Bob schizzò wurstel e fagioli.” Sentite
l’impatto grafico delle frasi, quasi dei versi, sembra di osservare tre
disegni in sequenza sulla tavola ). Caratterizzazioni larger-than-life,
personalità abnormi, di impatto gigantesco. La violenza grafica per eccellenza
(“Ecco Dong. Sta scappando. Tran lo rincorre. Tran lo prende per i capelli.
Tran lo fa cadere a terra. Tran ha un pugnale. Tran agita al vento la sua
testa”). Ellroy orchestra un intreccio che è un prisma narrativo che filtra
e direziona la luce (forse dovremmo dire il buio) in direzioni sghembe,
multipolari, tendenti asintoticamente all’asse orizzontale della Storia.
Un asse che viene sfiorato e carezzato eroticamente solo a tratti. L’esistenza
dei tre protagonisti, dal punto di vista dei quali osserviamo gli eventi,
ruota vorticosamente attorno alla storiografia completandola nei suoi buchi,
tappezzandola nei suoi vuoti più macabri ( la riproduzione di documenti
burn after reading, i tabulati di intercettazioni telefoniche, le rassegne
stampe reali dell’epoca). Wayne Teadrow Jr è un giovane poliziotto onesto
e corrotto al tempo stesso, che si trova immerso negli eventi storici suo
malgrado (non del tutto casualmente), ed è mosso unicamente dall’odio.
Ward Littel è un ex federale, avvocato, che si trova a gestire i proventi
della mafia di Las Vegas. Pete Bondurant è un mercenario al soldo di Howard
Hughes, coinvolto nella causa cubana. Le vite dei tre entrano come fili
negli eventi della storia americana e non ci è dato capire dove la realtà
storica finisca e la fiction cominci. Navighiamo, al loro fianco, nel limes
brumoso, nel territorio di confine tra ufficialità storiografica e ucronia.
I fili si intersecano, si uniscono, convergono parallelamente in una galassia
di “spezzaossa della Storia” in quella che Ellroy battezza icasticamente
“The Life”, la Vita, ovvero la “connessione tra esuli cubani rinnegati,
teste calde destrorse, tizi del KKK, poliziotti corrotti, cabarettisti
da quattro soldi, agenti dello spionaggio”. I rivoli narrativi fuoriescono
e rientrano tra movimenti che gli apparati deviati (deviati davvero?) dell’FBI
effettuano per screditare il movimento dei diritti civili e lo stesso Martin
Luther King, la guerra nel Vietnam che è un girone dell’inferno in terra,
il sorgere potente del potere dei Mobs, scremature e malversazioni operate
dalla mafia a Las Vegas (la nascita di una città, imprenditoria edilizia
allo stato puro), l’ascesa straordinaria si Bob Kennedy (che in un flash-forward
antistorico definiremmo a tratti obamiano) e la sua tragica morte, la situazione
Cubana (“Cuba è sabbie mobili/Cuba è carta moschicida/Cuba è colla”), Sonny
Liston che si appresta a sfidare Cassius Clay aizzando la folla (“Andate
in chiesa. Usate preservativi Sheik. Guardatemi fare il mazzo a Cassius
Clay. Guardatemi prenderlo a calci in culo fino alla Mecca”). Se ci si
allontana verso l’alto, si osserva la multiforme trama e si può osservare
il senso del tutto, come comprendere cerchi nel grano che da vicino paiono
incomprensibili. E si intravede un “tutto coesivo in cui eventi reali e
immaginari sono stati co-optati” (parole di Ellroy), una visione coerente
al dinamismo morale e psicologico del corso della storia degli Stati Uniti.
Per la prima volta, forse, è racchiuso in un romanzo (in una trilogia)
l’intero coacervo di tumulti sociali degli anni ’60 americani (qualcosa
che ci riguarda tutti), incapsulati in una contiguità narrativa enciclopedica.
Il risultato finale sciocca, sconvolge, sgomenta, smuove l’animo, terrorizza
e ossessiona.“Ritengo che tutte queste sensazioni, al livello più complesso,
includano e formino l’entertainment, lo spettacolo, il divertimento”. Dice
l’autore. Il tutto converge sull’elemento chiave della poetica Ellroyana
che è racchiuso nella parola “divert”: che significa deviare, stornare,
distrarre e allo stesso tempo divertire, divertirsi criticamente. Ellroy
non svela al lettore quello che di vero o fittizio c’è in quella zona di
confine tra realtà e finzione. Ellroy stimola. Suggerisce, suggestiona,
pone domande. Che a volte sono trabocchetti. E ci fa annegare nel mare
della sua letteratura.

(Pubblicato sulla Voce di Romagna del 2 Ottobre 2009)